Mosaico
Il termine “mosaico” ha un etimo incerto: alcuni autori lo fanno derivare dal greco musaikòn, “lavoro paziente degno delle Muse” (anche in latino questa tecnica veniva chiamata opus musivum, “opera delle Muse”), altri dall’arabo muzauwaq, che significa “decorazione”. C’è chi invece ha riconosciuto nel vocabolo una radice semita, che si legherebbe al patriarca Mosè. Sono state inoltre individuate altre espressioni, come musium, che vuol dire “esprimere qualcosa con la varietà dei colori”, oppure museos nel senso di “elegante”. Utilizzata già tremila anni prima di Cristo come rivestimento, per proteggere con materiali duri i laterizi più firabili, la tecnica del mosaico fu perfezionata nel corso dei secoli, dando soprattutto regolarità alle tessere che, tagliate in frammenti sempre più piccoli, conferivano al mosaico la stessa duttilità espressiva della pittura, ma una durabilità nel tempo molto più ampia. Dal mondo greco e romano, che ci ha lasciato splendide testimonianze musive ad esempio nel mosaico nilotico di Palestrina (Roma), questa tecnica si tramanda e trova una formulazione altissima e definitiva nell’espressività dell’arte bizantina, di cui si conservano splendidi esempi nelle chiese e nei monumenti di Ravenna. Fissate su supporti generalmente di calcestruzzo, le “tessere” del mosaico sono costituite da materiali di diversa natura e colore (pietre dure, vetro, conchiglie), e potevano essere arricchite da sottili lamine d’oro e argento, imprigionate fra strati luminosi di vetro, e da madreperle e pietre preziose.