Concia delle pelli
Il tentativo di preservare la pelle degli animali per sfruttarne le capacità protettive è antico quanto l’uomo, e ha portato quest’ultimo a elaborare un sistema complesso, capace di fermare i processi naturali di putrefazione delle sostanze organiche, ottimizzando l’impermeabilità, la resistenza e la gradevolezza estetica del pellame. Dopo un’accurata pulitura del pellame, che comporta l’eliminazione della sporcizia, dei peli e delle eventuali rimanenze di tessuti e fibre al di sotto dello strato di pelle, il pellame grezzo viene trattato con soluzioni alcaline di calce e solfuro: questo processo, che prende il nome di calcinazione, serve ad allentare le fibre della pelle e a stabilizzarne la struttura, rallentandone il deperimento e la putrefazione. Dall’Ottocento in poi, questa fase importantissima della lavorazione delle pelli avviene all’interno del “bottale”, un grande cilindro metallico che ruota attorno al proprio asse, al cui interno vengono inserite le pelli, l’acqua e i prodotti chimici. Il movimento rotatorio e l’immersione completa delle pelli consentono una penetrazione maggiore dei composti e un miglior risultato nella lavorazione. A questo punto, le pelli più spesse, come quella bovina, possono essere tagliate a metà parallelamente alla superficie, per ottenere strati più sottili e lavorabili. Lavate le pelli dai composti utilizzati per la calcinazione, sgrassata la loro superficie, si passa alla concia vera e propria, che rende imputrescibile un composto organico all’origine molto delicato. Per la concia viene utilizzato solitamente il cromo trivalente, ma possono essere impiegati più raramente composti vegetali tanninici, utilizzati di regola fino all’Ottocento, derivati dal castagno, dalla quercia o da altre piante. Ulteriormente raffinata, ingrassata e tinta, la pelle diventa dopo il prodotto “flessibile” che conosciamo, utilizzabile per i moltissimi scopi cui l’ha indirizzata la creatività umana.